La Brexit e i danni all'export
In particolare, lo scenario maggiormente temuto è quello di una Brexit disordinata, ovvero senza accordo. Perché genererebbe un mercato dove scatterebbero le regole del WTO (l'Organizzazione mondiale del commercio) con dazi e controlli alle frontiere. Cose che non solo aumentano i prezzi e riducono la competitività dei beni esportati, ma ostacolano anche dal punto di vista burocratico l'export stesso. Senza considerare che trattandosi di beni deperibili, anche poche ore di differenza per compiere il tragitto Italia-Regno Unito fanno enormemente la differenza.A tutto questo va aggiunta poi la probabile svalutazione della sterlina in caso di hard Brexit. Questo comporterebbe un costo maggiore dei beni importati per i londinesi, e ovviamente una minore competitività di chi fa export verso il paese britannico. Tanta roba, visto che il 30% dei consumi alimentari nel Regno Unito deriva da prodotti importati dalla UE.
Il dibattito a Londra
Per questo motivo i vertici del settore agroalimentare stanno seguendo con attenzione il dibattito su Brexit, che è ripartito alla Camera dei Comuni di Londra. Il voto del 15 gennaio scorso ha bocciato l'intesa che la May aveva raggiunto con Bruxelles verso la fine del 2018. Il tempo a disposizione però stringe. L'uscita di Londra dalla UE è prevista il 30 marzo. In quel giorno il Regno Unito diventerà un paese terzo e gli scambi commerciali con gli Stati membri saranno sottoposti a dazi e controlli alle frontiere.Senza dubbio il commercio di prodotti agroalimentari è tra i capitoli più delicati della partita su Brexit. Il “Made in Italy” agroalimentare piazza sul mercato britannico quasi 3,5 miliardi di euro l’anno di prodotti. Alcuni di questi, come Prosecco, Parmigiano Reggiano e Grana Padano, incidono tra il 10 e il 40% sul fatturato complessivo da export delle nostre aziende. Per questo motivo la Brexit fa tremare soprattutto loro.
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